Artista capace di sperimentare sulla scena, di lavorare tra autobiografia e cronaca, Delbono crea insieme alla sua compagnia, che da anni alimenta la sua ricerca artistica, un lavoro collettivo che trova il suo esito finale derivando suggestioni dal linguaggio poetico e letterario, da quello della danza, come anche da quello cinematografico e musicale.

“A pensarci bene, Cristo è l’unico anarchico che ce l’ha fatta” ha scritto André Malraux. Qualche giorno prima di morire mia madre, fervente cattolica, mi aveva detto: “Perché, Pippo, non fai uno spettacolo sul Vangelo? Così dai un messaggio d’amore. Ce n’è così tanto bisogno di questi tempi”.
E io ho pensato subito alle recite che facevo da piccolo nella parrocchia, dove interpretavo Gesù bambino coi riccioli biondi, innamorato anch’io come lei di quel mondo di preti, di chiese, di incensi, di rappresentazioni teatrali. E poi mi è venuto in mente quando da grande ho recitato ancora Dio, in un film di Peter Greenaway. Ma questa volta facevo anche il Demonio. E Lot, che faceva l’amore con le sue figlie e imprecava contro Dio e il Demonio. Un personaggio in quel film diceva: “Non è Dio che ha creato l’uomo, ma è l’uomo che ha creato Dio”.
E ho pensato a tutte le conquiste, le stragi, le guerre, le menzogne, le false morali create per quell’ipotesi di Dio. Ma anche alla bellezza, all’arte, e alla poesia che quell’idea di DIO ha portato in questi duemila anni.
E a quello che diceva Marx: “La religione è un sospiro dell’anima in un mondo senz’anima”.
E così ho iniziato a filmare e a fotografare le immagini che ho incontrato nei miei viaggi in Italia, in Francia, in Romania, in Russia, in Latino America. Immagini di Madonne, di Cristi, di martiri. Ovunque trovavo qualcosa che aveva una relazione con quella storia. Ovunque ho visto Cristi dai volti dolorosi, seri. Molto poco ho visto la gioia nei volti di quei Cristi. Mi sono sentito come in prigione.
E così per un momento ho pensato di chiamarlo “Assedio” questo spettacolo. Ho avuto un senso di rifiuto profondo per tutta quella iconografia buia, pesante, sofferente legata a quel Vangelo.
E così mi sono perduto, come faccio sempre quando costruisco i miei spettacoli, dimenticando quel Vangelo, o forse portandomi dietro di quel Vangelo solo il nome.
E sono finito a incontrare persone arrivate in mare dall’Africa, che ora vivevano in campi creati apposta per loro. Ho incontrato degli zingari che abitavano in luoghi di totale degradazione. E poi ho iniziato a cercare paesaggi, mari, tramonti, cieli che mi raccontassero miracoli, luce. “Quei calci lanciati verso il cielo – scriveva Pasolini guardando i ragazzi giocare a pallone – ci insegnano a lanciare i nostri desideri il più lontano possibile, in modo che la gioia del gioco ci accompagni fino alla morte”.
E poi mi sono trovato a guardare per dieci giorni un crocifisso appeso a un muro bianco, io inchiodato in un letto di ospedale per un problema agli occhi. E poi a vagare per quei corridoi cercando di raccontare – ancora una volta con la mia camera – quel mio disperato e grottesco vedere doppio.
Come vedo doppio, disperato e grottesco questo tempo che attraversiamo, dove non riconosci più il vero dal falso, il reale dall’irreale, dove l’esasperazione del moderno ci ha fatto dimenticare qualcosa di sacro di antico.
E alla fine mi sono rimaste dentro quelle immagini, quelle voci, quei suoni, quegli echi, quei silenzi sentiti in quei campi di zingari e di profughi, in quelle corsie d’ospedale, ma anche quella forza vitale, quella inspiegabile gioia trovata nei luoghi deputati al dolore.”